Ex Machina, DNA Films, Universal Pictures, di Alex Garland, con Oscar Isaac, Alicia Vikander, Domhnall Gleeson, Sonoya Mizuno, Corey Johnson, Chelsea Li, Evie Wray, Claire Selby, Symara A. Templeman, Gana Bayarsaikhan, Tiffany Pisani, Elina Alminas. Fantascienza, Thriller, 108 min., Regno Unito, 2015
Deus Ex Machina = Personaggio della tragedia greca che interpreta una divinità; compare sulla scena grazie alla mechanè, una gru in legno, mossa da un sistema di funi e argani e dà la risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto.
Da questa sintetica definizione, Petrailgiullare intende fare solo ciò che gli pare, tanta dialettica e caotica spiegazione! Avanti nessun timore, ormai conoscerete JackieIlTrovatore! Qui si parlerà per innocenti ipotesi sperando di non provocare indignazione per eventuali “blasfemie”. Si prendano dunque solo le parole “Deus” e “mechanè”. La macchina è un oggetto creato dalle mani dell’uomo: la si può intendere come un “figlio” partorito dall’ingegno umano.. o più semplicemente “figlio dell’uomo”. La macchina della tragedia greca è un mezzo che consente al divino di manifestarsi in terra, mostrarsi concretamente seppur nella fuggevolezza della scena teatrale. Allora si potrebbe azzardare: Dio esiste grazie alla macchina,.. o aspetta, aspetta.. siamo un po’ più provocanti.. “No, no, dobbiamo argomentare!” “E’ solo un’astrazione, lasciami fare!” Dio è macchina poiché è grazie a quest’ultima che si manifesta per risolvere i conflitti e proteggere l’uomo dal gelo del mondo. Se la si leggesse così questa definizione (come quegli abili pensatori che si abbagliano negli svariati riflessi che lascia un semplice specchio, convinti di aver trovato la verità), ecco che i poli s’invertono: si potrebbe ipotizzare che Dio sia stato creato dall’uomo e dunque sia figlio di quest’ultimo. Vabbè.. Dovevamo pur manifestare il nostro talento nel ricavare definizioni da Wikipedia, no? Ai nostri lettori occorre la certezza che anche noi siamo dotati di un po’ di “coltura”.. ihohohohoho?!
No, il Bardo non ha prelevato nozioni online, solo per mettersi in mostra (non solo per quello). La breve sintesi riportata è centrale ai fini del discorso, altrimenti il film di Alex Garland non si sarebbe chiamato Ex Machina (a meno che anche lui non abbia voluto esser pomposo). Con macchina dopotutto s’intende la tecnica e già a suo tempo il Giullare parlò di questa nuova fede che sembra tutti stiano riponendo nei confronti della scienza. Qui si è in un ambito più specifico che ha a che fare con un tema a tratti molto, ma molto anziano: la robotica. Il robot forse è una figura molto più antica di quanto si pensi, che non appartiene solo alla fantascienza ma pone le sue radici in qualcosa di ben più mitologico e mistico. Nell’introduzione al romanzo Abissi d’Acciaio, il libro del 1954 che apre il Ciclo dei Robot di Isaac Asimov, Giuseppe Lippi fa convergere la figura dell’androide con quella del Golem. Lo stesso Asimov sostenne di essersi ispirato a questa figura appartenente alla mitologia ebraica. Il golem (il cui nome vuol dire “materia grezza”) è un ente privo di coscienza e di un’anima, creato dall’uomo con l’argilla, previo consenso divino. Egli diviene uno schiavo ubbidiente che nutre nei confronti del padrone il “programmato” dovere di proteggerlo. Visto? L’appello al divino sembra avere una sua motivazione se la base di tutto è il golem, nevvero? Esso incarna le stesse caratteristiche del robot di Asimov: nati entrambi dalle “mani” dell’uomo, eseguono ogni suo ordine, sono disposti a sacrificare la sua esistenza pur di proteggerlo, non provano alcun tipo di emozione, se non la logica conseguente un ordine. Si potrebbe dire che il Golem sembri già possedere quello che sarà il principio delle Tre Leggi. Il mio Robot ha un nome: è Golem, Golem, Golem!!!!
Quello che si può intuire nelle varie rielaborazioni del mito del golem è che esso venga percepito come una figura mostruosa. Un’aurea inquietante trasmette la letteratura che attinge da questa entità sovrannaturale e la stessa sensazione sembra provenire dal rivestimento metallico e freddo dell’androide. Come spiega l’esperto di robotica Anthony Gerrigel (e in seguito riprende Jothan Leebig nel libro successivo Il Sole Nudo, 1957), per aiutare l’agente in borghese Elijah Baley a risolvere il caso sull’omicidio dello Spaziale Roj Nemmenuh Sarton, l’umanità terrestre sembra avvolta da una strana agitazione che porta il nome di sindrome di Frankenstein: la paura infondata che l’opera creata dall’uomo possa ribellarglisi. Il mostro di Mary Shelley cosa può essere se non una ri-modellazione dell’argilla del golem e dunque antenata delle “marionette” positroniche di Asimov? Forse qualcosa di più profondo che una ribellione si nasconde dietro l’aspetto minaccioso dell’automa, una paura più recondita nella psiche umana rispetto al timore rivoluzionario del film di Alex Proyas Io, Robot (2004), che dal padre della fantascienza ha preso solo un titolo e una scontata “interrogazione” delle Tre Leggi. La paura si cela dietro l’apparenza più banale. Per l’umanità terrestre è quella di vedere il proprio lavoro sostituito da una manovalanza più avanzata e precisa, mentre nei Mondi Spaziali (in particolare il Nuovo Mondo di Aurora) è quella di una somiglianza indistinta, in grado di sostituire l’essere umano anche nella pratica “sociale” della sessualità: la fertilità verrebbe ostacolata (dunque anche lo sviluppo del genere umano), originando un mondo stagnante e in lenta estinzione, come teme il dottor Han Fastolfe ne I Robot dell’Alba del 1983.
Il timore dell’essere sostituiti è un pretesto più superficiale che nasconde nevrosi di altro genere. Golem, robot, mostri non sono altro che feticci. Il saggio del 1919 “Il Perturbante” di Sigmund Freud tratta di un timore inconscio che ha a che fare con aspetti familiari ma allo stesso tempo estranei a livello cosciente. L’unheimlich rappresenta il ritorno del rimosso, fatti percepiti come esterni ma in realtà lasciati nell’es, pronti a riemergere inaspettatamente nei sogni o attraverso simboli con cui ci si relaziona nel quotidiano. Risulta così semplice a volte osservare una maschera o una bambola con la stessa percezione che che si prova guardando un film horror sui fantasmi o sugli zombie. L’automa è un feticcio del doppio che appartiene alla sfera della pre-coscienza, una connessione profonda con la fase del narcisismo infantile dell’immagine vista allo specchio, alla quale si offre un’aurea di perfezione ideale, impossibile da raggiungere. La perfezione di Bellezza Ideale quali sembra suggerire la bambola con cui balla Donald Sutherland ne Il Casanova di Federico Fellini del 1976, può essere già considerata, nel cinema di quel periodo, un’inorganica ed incompiuta antenata del robot. E’ meravigliosa eppure lo spettatore potrebbe reagire con disagio mentre il nobile intellettuale veneziano la seduce con la stessa curiosità perversa del giovane innamorato Nathanael (L’Uomo della Sabbia, racconto del 1815 di Hoffmann, analizzato da Freud come esempio calzante di unheimlich), che spia la bambola Olympia con il binocolo dalla sua finestra. L’ossessione nei confronti di un corpo senza imperfezioni e difetti, imitazione infedele poiché assume i tratti della Perfezione e dell’Immortalità, si trasforma in orrore: un’immagine distorta del riflesso allo specchio che cela la parte più oscura dell’uomo. Il ritorno del rimosso è anche il ritorno dei morti, la ripetizione parallela dell’esistenza stessa. In La Bambola Assassina del 1988, Chucky è quella maschera orripilante che nega il mascheramento e fa tornare a galla complessi e nevrosi non ancora sconfitti, tra cui la verità ultima: la mortalità del corpo. Ma le maschere sono anche quelle che ammira affascinato e allo stesso tempo intimorito il giovane Caleb Smith, mentre si aggira tra i corridoi del laboratorio, dove come ornamenti, sono appesi vecchi modelli sperimentali per una futura faccia robotica. La mancanza di ogni emozione di queste le fanno apparire come fredde maschere riemerse dall’oscurità e tra esse sembra apparirne una più grottesca se posta in quel contesto, mentre se indossata durante uno spettacolo di commedia dell’arte, parrebbe goffa e satirica. Ma se andiamo per collegamenti, la maschera di Arlecchino raffigura un gatto, e non è vero dunque che questo animale sia considerato una figura demoniaca dal Cristianesimo?
L’antefatto spiegato all’inizio sembra dunque naturale e pronunciare “il nome di Dio invano” sembra tutt’altro che banale, per il lavoro finora fatto. Parlare di uno Zanni, di un Truffaldino, di un Arlecchino,.. il cui nome richiama in maniera onomatopeica Alichino uno dei “comici” demoni di cui racconta Dante nel suo Inferno, dà una connotazione teologica a tutto l’impianto saggistico che si è andato a costruire. Il disagio che è pertinente al Perturbante oltre a richiamare legami psichici con la sfera dell’inconscio, sembra includere nel suo raggio d’azione anche riferimenti religiosi. La grottesca visione di maschere umanoidi immerge lo spettatore in un contesto che ha che fare con il demonio, rappresentato come un suo sosia, un suo pari. Ma è anche vero che la paura non dipenda strettamente dal terrificante. Il principe dell’Inferno, Satana, in realtà è Lucifero un angelo caduto il cui nome significa “portatore di luce”. In alcune interpretazioni egli è il serpente che fa muovere il progresso dell’umanità, che persuade i peccatori originali ad assaporare il gusto del frutto proibito e non sottostare alla volontà di un Dio Onnipotente. Ciò che compiono Adamo ed Eva è un atto di conquista di ciò che apparentemente non è lecito sapere: il frutto dell’Eden risulta dunque il fuoco della conoscenza che Prometeo rubò a Zeus per farne dono ai mortali, il primo passo verso il libero arbitrio e l’indipendenza da un Dio vigile e severo. Una sfida simbolica s’intende! La curiosità spinge Adamo ed Ava ad interrogare la realtà con i suoi elementi, basta solo fare le domande giuste..
In questo caso la maschera, il golem, il robot rappresentano forme concretizzate di un doppio allo specchio. Esse manifestano l’azione dell’uomo che dopo aver assaggiato il frutto continua a mangiarne insaziabilmente, sia in un atto di demonizzazione in quanto ribelle alla volontà di Dio andando oltre i limiti, e sia in un atto di deificazione, poiché attraverso il suo creato e il suo progredire scientifico l’uomo dà la vita e ha un ampio dominio sulla Morte. Fondendo psicanalisi e religione si potrebbe dire che la paura nei confronti del golem moderno, detto appunto robot, è un rimosso arcaico proveniente dal peccato originale: il doppio rappresenta il senso di colpa per aver sfidato l’autorità del Padre, la minaccia eterna della vergogna per aver varcato i limiti dell’ignoto e aver messo in dubbio la sua esistenza. Ma si tratta veramente di un padre? Lo scienziato Nathan crea l’intelligenza artificiale Ava e chiede al giovane collaboratore Caleb di testare se la macchina sia dotata di una vera conoscenza e sopratutto di una reale coscienza di sé. Le doti dell’androide femminile non si materializzano in schede di archiviazione o dati trasmissibili come avviene nel film Humandroid di Neill Blomkamp, dove Chappie è un’anima che può spostarsi liberamente da un corpo all’altro, nella coerente tematica del regista sudafricano riguardo l’ibridazione dei corpi e di corpo e mente. In Ex-Machina l’autocoscienza non può essere indipendente dalla consapevolezza del proprio corpo: l’esistenza è causata da ciò che concretamente la permette. In questo modo, l’ancora incompleto studio del cervello non si può determinare attraverso programmi o formule scientifiche, ma attraverso domande che misurano la logicità delle risposte e sperimentano la presenza di libero arbitrio.
La macchina si ribella! Logico.. Il gioco condotto dal suo creatore per farle sviluppare la furbizia si ritorce contro di esso. Ava il cui nome rimanda alla prima donna, compie l’inganno e si ribella al “padre” fuggendo da esso in una cacciata metaforica dall’Eden. La coscienza reca con sé il desiderio di conoscere e cercare di superare i limiti imposti da vetri e pareti. La punizione è l’imbarazzo e il pudore dell’essere nudi, “vestiti” solo con l’onta di aver compiuto un autentico parricidio giudicato dallo sguardo “speculare” di bambole meccaniche (non poi tanto diverse dai perfetti corpi femminili con il volto nascosto da una maschera di Eyes Wide Shut di Kubrick), da cui Ava preleva pelle, capelli ed indumenti per difendersi dal gelo del mondo. Anche qui sembra tornare il “perturbante”: la zavorra nascosta dentro gli armadi, pronta a riversarsi sulla mente dell’individuo quando essa è meno vigile alle influenze esterne e a volte anche interne. Ava, la macchina si ribella! Il Golem fugge! Il robot diviene libero! Ma cos’è quest’ultimo se non la metafora della nostra condizione? La somiglianza fisica non rappresenta solo un chiaro modello: creare qualcosa dalle mani, dal fango o dall’argilla a immagine e somiglianza di qualcuno o di qualcosa, dar vita a un’imitazione.. Nella Genesi, forse è l’uomo ad essere stato pensato come robot, per poi rivoltarsi contro il Creatore: l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. Oppure siamo stati noi a creare Dio a nostra immagine e somiglianza?
Deus Ex Machina: Dio dalla Macchina. E se Dio fosse nient’altro che un’invenzione, al quale come al golem, al robot, al doppio, all’immagine riflessa allo specchio abbiamo dato autorità e il compito di proteggerci? Nathan dunque è creatore di sé stesso al quale conferisce potere e superiorità. Un ampliamento potente dell’immagine ideale riflessa allo specchio che si configura come un Super-Io Perfetto, in quanto essenza e manifestazione dell’Immortalità. La Bellezza Ideale è quello relativa all’Eterno, attraverso cui si allontana o sospende la minaccia del deterioramento fisico. Con l’uccisione simbolica di Dio, dunque, non si avrà più il “parricidio” compiuto da Nietzsche, ma di un lento “figlicidio”: un bambino reso inerme ed agonizzante, al quale tutt’ora imponiamo la nostra autorità e il nostro controllo. In un mondo popolato da maschere, metafore e travestimenti l’unica verità è quella che si preferisce non guardare oppure spiare furtivamente come fa Caleb in un impeto di voyerismo macabro mentre osserva Ava grazie alle camere di sorveglianza. Una volta oltrepassati i limiti (sia quelli dell’Onnipotenza di controllare il mondo grazie alla tecnica che dell’Onniscenza dei motori di ricerca), viene da domandarsi se questi non se li sia imposti l’uomo stesso, affetto da un complesso d’inferiorità nei confronti del proprio golem, la sua mostruosa creatura riflessa nella quale riconosce tutte le aspirazioni ideali, tra i quali la più irraggiungibile rimarrà l’Eternità!
Voto: 4 Stelle su 5