Parti

Hunger Games: The Mockingjay – Part 2, Lions Gate Entertainment, di Francis Lawrence, con Jennifer Lawrence, Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Philip Seymour Hoffman, Donald Sutherland, Josh Hutcherson, Stanley Tucci, Julianne Moore, Jena Malone, Sam Claflin, Natalie Dormer, Willow Shields, Mahershala Ali, Elden Henson, Patina Miller, Robert Knepper, Michelle Forbes, Evan Ross, Wes Chatham, Misty e Kim Ormiston, Gwendoline Christie, Stef Dawson, Meta Golding, Paula Malcomson e il fratello di Thor. Fantascienza, 137 min., USA, 2015

Sembrava che il Giullare avesse rinunciato.. Troppe cose, troppi film,.. troppi “in-troppi”! Eppure non ha mollato! Forse di recensione non si può parlare, tuttavia per una riflessione non è mai troppo tardi, seppur il giudizio sarà di parte, anzi di.. parti!

Si parla di Hunger Games: Il Canto della Rivolta – Parte 2! L’attuale moda dell’industria hollywoodiana è quella di dividere in due film l’ultimo capitolo di una saga (letteraria, ma anche cinematografica), da una parte per aumentare gli incassi al botteghino, e dall’altra per dilatare la trama, permettendo di ampliarne le fasi didascaliche preparatorie all’azione che scoppierà nel sequel. Il risultato de Il Canto della Rivolta risulta non proprio riuscito: la prima parte procede in maniera piatta ed esageratamente descrittiva, con lo scopo di preparare il campo per la battaglia che si svolgerà nella parte seconda.. che durerà 15 minuti.. Quando il desiderio di profitto va ad intaccare la fruizione si danneggia una potenziale saga di discreto successo.  Scorporare un capitolo della saga di Hunger Games in due parti non è stata una mossa azzeccata: nel tentativo nevrotico di raddoppiare gli incassi, facendo in modo che i “fanatici” lettori non restino delusi dai tagli della versione cinematografica, entrambi i film sono statici. L’avventura si trascina inutilmente verso il suo epilogo senza un ritmo incalzante o colpi di scena efficaci. Neanche il finale riesce a gratificare e colmare le aspettative date al pubblico nella parte precedente. In poche parole, la produzione ha raccontato in due film qualcosa che si poteva benissimo raccontare in uno. A rimetterci è il corpo (frantumato) che in sé conteneva tematiche interessanti e attuali con il nuovo clima di terrore che si è venuto a profilare in Europa in queste ultime settimane.

Perché come un tempo alludeva il Pagliaccio in Uno Sguardo Neutrale la guerra è un gioco di parti! Analizzando alcuni blockbusters usciti negli ultimi anni tra i quali Equilibrium, La Notte del Giudizio e il suo seguito Anarchia – La Notte del Giudizio, la saga di Divergent e Hunger Games, pare che in essi vi sia insito un elogio della guerra, un giustificata chiamata alle armi. Il presupposto ideale di queste ambientazioni distopiche, è il ripudio della violenza (come la pillola che elimina le emozioni per causare gli odi e le rivalità in Equilibrium, oppure gli Hunger Games per contenere le rivolte) e la costrizione ad una pace forzata. Queste promesse utopiche mascherano gli interessi dei potenti privilegiati ai vertici della gerarchia, che sfruttano il lavoro degli oppressi (il vero motore dell’economia), limitandoli della loro libertà per un “fine superiore”. La rivolta appare l’unica alternativa accettabile, seppur dolorosa. Ma la verità è che una volta ribaltate le sorti, il domani rimane del tutto incerto. La grossa bugia raccontata da queste storie è ritenere che la guerra sia il veleno dell’umanità, il cancro che va debellato con tentativi di violenza controllata, raccontando frottole su quanto combattere sia brutto, e vivere in armonia sia bello!

E’ nella costruzione di un futuro migliore, che si nascondono i germi per la distopia. Seppur Equilibrium parte da una società “liberamente” ispirata a quella di 1984 di George Orwell, c’è una differenza abissale tra i due che li rende completamente diversi. Il Grande Fratello non condanna la guerra! La incita per poter incanalare le pressioni dei cittadini verso l’esterno in continui cambi di fazioni contro cui l’Oceania scende in guerra arbitrariamente. E’ in uno scenario del genere che la società funziona con precisione impedendo ogni tentativo di ribellione del protagonista Winston Smith. L’errore dei nuovi blockbuster hollywoodiani è quello di partire dalla premessa che l’abolizione della guerra sarà la causa di tutti i mali. Per molti aspetti l’agire bellico rappresenta un ideale romantico con cui rivendicare la propria identità: in Hunger Games, come in Divergent e in Anarchia è un nobile tentativo attraverso cui affermare sé stessi. Ma per chi ne è saturo fin dai tempi dell’antica Roma, per chi conosce da vicino bombardamenti e la profonda ferita provocata dall’Olocausto, la guerra non è il mezzo del cecchino Chris Kyle per difendere la sua patria in American SniperLa guerra è solamente guerra! Niente patriottismi, solo morte e distruzione, il gioco calcolato descritto da Orwell che governa il mondo, quasi con attendibilità scientifica.

Chi siamo noi? Capirlo rappresenta la sfida più difficile, che può essere superata solamente se si riconosce l’identità dell’altro. Nell’atto finale, i ribelli guidati “simbolicamente” da Katniss Everdeen (un semplice simbolo nelle mani di Alma Coin), attraverso un vero e proprio attacco terroristico, bombardano Capitol City, uccidendo e mutilando i cittadini ignari in cerca di rifugio. L’inganno perpetrato appare giustificato, se colpisce l’élite frivola e privilegiata, che si diverte guardando in diretta televisiva i giochi dove i tributi si ammazzano. “Gli sta bene a quei brutti bastardi!!”, ma come fa intuire nel finale il Presidente Snow, stabilire chi siano i cattivi è una faccenda alquanto ambigua.

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Lo spettatore si identifica con Katniss e il suo esercito. L’assalto terroristico risulta dunque mosso da nobili princìpi. Ma questa identificazione non risulta un paradosso? Probabilmente gli abitanti di Capitol City sono colpevoli del loro ozio e del loro disinteresse nei confronti di ciò che accade fuori dal confine. E noi? Guardiamo lo schermo, con tacito assenso, mostrando “l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto”, per dimenticarcene una volta che l’arbitro ha fischiato fuorigioco a danno della nostra squadra del cuore. Beatamente si osservano le tragedie, gli orrori del fuoco e della distruzione, riducendoli a fanatismi e credi religiosi, incivili solo perché opposti ai nostri, solo perché la pace è termine in uso solo a casa nostra! Con questo il Giullare non intende giustificare! Ma il progresso, la civiltà e l’umanità stessa esistono come indice di differenza e per giustificare l’eterna bugia della “nostra” pace, che comporta lo sfruttamento, la miseria e le lotte degli altri.

Quella che si definisce “giustizia” ha un prezzo da pagare e a pagarlo sono i distretti capitanati da Katniss, quelli con cui ci identifichiamo e allo stesso tempo, quelli contro cui ci opponiamo.

Voto: 2 Stelle su 5

Spettro

Spectre, Metro-Goldwyn-Mayer, Columbia Pictures, Warner Bros. Pictures, di Sam Mendes, con Daniel Craig, Ralph Fiennes, Christoph Waltz, Léa Seydoux, Ben Whishaw, Naomie Harris, Dave Bautista, Monica Bellucci, Rory Kinnear, Jesper Christensen, Alessandro Cremona, Peppe Lanzetta, Stephanie Sigman, Detlef Bothe, Brigitte Millar, Marc ZInga, Judi Dench. Avventura, spionaggio, fantascienza, 148 min., Regno Unito, USA, 2015

Una parola può assumere diversi significati con la giusta modifica. Si prenda rimorso! Si sostituisca una “r” con una “s” e voilà.. Ecco qua anche se non proprio due esempi calzanti in realtà! Il rimorso è qualcosa che ha a che fare con il rimosso: come uno spirito, esso attende nell’inconscio, e tormenta quando le barriere dell’eroe si fanno più sottili. Cosa rende più debole il volto duro e imperturbabile di Daniel Craig? Forse l’assenza di una donna? La vecchia M scompare lasciando enigmi irrisolti e il “figlio” disorientato, alla ricerca di una figura alternativa a quella materna. Un eroe, che proprio come vuole il canone classico, presenta una postura eretta, elegante, di classe per nascondere le insicurezze e i complessi di un bambino attratto dalla “madre”.

Città del Messico. Giorno dei Morti. Tra le maschere in festa per le vie colorate della città, una figura in bianco si guarda intorno circospetto. Un’altra figura mascherata, accompagnata da una donna ne segue i movimenti e inizia a pedinarlo tra la folla in delirio, mentre la mdp lo accompagna instancabilmente per tutta la durata del piano sequenza: dalle strade rumorose, all’interno di un palazzo, dalla camera d’albergo in cui l’accompagnatrice si aspetta un incontro intimo, ai balconi e ai tetti sovrastanti la festa. L’inseguitore è il James Bond di Daniel Craig, che una volta sbarazzatosi della maschera raffigurante un teschio, si porta al margine di una balconata, spia i discorsi di quella prima figura insieme ad altri uomini e fa saltare letteralmente la riunione fra questi. E poi inizia l’inseguimento tra le vie affollatissime di Città del Messico in un turbinio di colori vivaci e maschere grottesche, una corsa tra i fantasmi compiuta da uno che fino all’inquadratura precedente ne prendeva parte: un morto che si trascina instancabilmente verso la fine interminabile di un mito eterno..

spectre-image-mexico-city-2Sam Mendes torna per la seconda volta dietro la macchina da presa per dirigere un quarto episodio della saga inaugurata dall’attore Craig. Inserito nel mosaico narrativo che va da Casino Royale Skyfall, questo episodio vede James Bond nuovamente alle prese con un passato ombroso. Se nei precedenti si è assistito ad una crescita dell’idolo con la necessaria caduta e la conseguente rinascita, in questo si ha un confronto finale con il profondo e il conseguimento di una ben più salda maturità. Nella contemporaneità del vago, dell’incerto da controllare, la stella di James Bond inizia ad affievolirsi brillando solo per luoghi comuni o cliché. L’agente segreto del MI6 riemerge da una sciarada di fantasmi grotteschi in giubilo e avanza su un filo tesissimo dal quale non si può cadere. Spectre sembra faticare per circa due ore e mezza tra scene d’azioni eccezionali e scenografie kitsch evocative, ma alla fine giunge a un’evoluzione del personaggio completa e caratterizzante.

Merito del film è quella ri-attualizzazione del personaggio che mantiene la carne e la sua compostezza, nel nuovo filone del controllo che ultimamente sta invadendo le tematiche dei nuovi blockbuster statunitensi. In una società dove tutto è spiato, gli agenti segreti sembrano destinati all’estinzione. Ma la Morte può Attendere! Nonostante i tempi difficili del presente, James Bond continua a funzionare con il suo carico di classicità e classe che lo distingue. Tra un inseguimento fantascientifico per le strade senza buche di Roma (con le automobili parcheggiate-in-fila-ordinatamente-senza-un-veicolo-fuori-posto! Fantascienza Pura!!!), una scazzottata con Dave Bautista, Spectre sa essere fedele alla tradizione mostrando un tono glamour ed ammaliante, nonostante la lunghezza eccessiva e infine sentita nella seconda parte. Ma niente di cui lamentarsi, anzi per il Giullare il punto di forza di quest’ultima opera sta nei dettagli dell’immagine. Il piano sequenza in costume sopra citato rappresenta una delle scene più memorabili del film, suggestiva per l’impatto visivo e l’incalzante colonna sonora d’accompagnamento. Una bella lezione di “spettacolo per gli occhi”!

Il recupero di un canone classico raggiunge nella scena del treno, che altro non può ricordare che il treno di Intrigo Internazionale di Hitchcock, la massima tensione. Come nel film del 1959, all’eroe manca una figura femminile a cui offrire il proprio amore e dunque perseguire lo scopo della narrazione. La scomparsa di M l’ha lasciato con dei padri da affrontare, tra i quali il nuovo direttore del MI6 (Ralph Fiennes) e Mr White (il cui suicidio è compiuto grazie all’inazione di James Bond), e una società segreta djames-bond-e-madeleine-swann-cenano-sul-trenoa affrontare: SPECTRE. A capo dell’organizzazione in cui erano affiliate le precedenti nemesi, si cela Ernst Stavro Blofeld (il cui vero nome è Oberhauser), l’altra faccia della moneta, il riflesso di Bond, il simbolo della direzione sbagliata causata dall’assenza di una figura paterna (e dunque di ordine).  La morte simbolica del padre combacia con quella di Mr White, momento in cui James finalmente trova un sentiero narrativo più stabile: proteggere la figlia. E nel treno, dopo che Bond è riuscito a sbarazzarsi del suo inseguitore (che lo saluta poeticamente con un “Cazzo”, unica battuta del wrestler), si abbandona alla passione con Madeleine, elegantemente vestita e dal linguaggio provocante. Il treno è lo stesso partito nel 1959 e instancabilmente in viaggio dal passato, giunge al presente come uno spettro, unendo il classico al contemporaneo per un blockbuster “autoriale”.

Voto: 4 Stelle su 5

Diritti

Fantastic Four (Fant4stic), 20th Century Fox, di Josh Trank, con Miles Teller, Kate Mara, Jamie Bell, Micheal B. Jordan, Toby Kebbel, Tim Blake Nelson, Dan Castellaneta, Reg E. Cathey, Jodi Lyn Brockton, Chet Hanks, Shauna Rappold, Christopher Heskey, Jerrad Vunovich, Wayne Pére, Don Yesso, Gus Rhodes, Tim Heidecker. Fantascienza, 100 min., USA, 2015

fantasticfour0007Nel 1964 esce Mary Poppins, un film Disney che vede attori in carne ed ossa cimentarsi in canzoni e balletti insieme a personaggi animati. Si tratta di un’opera ispirata al romanzo del 1934 dal medesimo titolo, della scrittrice australiana Pamela Lyndon Travers. Nel 2013 esce Saving Mr. Banks che descrive il processo della realizzazione di quel film Disney del 1964. Nel titolo recente, viene analizzato il carattere della scrittrice e il rapporto che la lega al papà dei film d’animazione. La personalità scontrosa della Travers e la sua ostinazione nel non voler cedere i diritti per la trasposizione cinematografica, derivano da un’infanzia difficile e dal rapporto con un padre ostinato a voler dare uno scopo alla sua vita e alla sua attività, con una madre incapace di badare ai figli per via della crisi economica e una zia severa che impone una presa di responsabilità da parte di tutti. Il romanzo diventa così lo scrigno in cui deporre rigorosamente i ricordi, rielaborandoli in una versione mitizzata del tortuoso cammino della crescita.

Robert Travers Goff rappresenta un padre sognatore, incapace di prendere coscienza della condizione familiare: anche se trae conforto dall’alcol, ciò non gli impedisce di insegnare alle proprie figlie ad amare e evadere dal quotidiano grazie a racconti fantastici. Ma le belle parole e gli aneddoti non bastano a salvare  moglie e figlie dalla povertà e sé stesso dalla morte. L’ordine proviene dalla zia Ellie, l’unica detentrice di quella disciplina che la moglie di Goff non riesce ad offrire durante gli ultimi istanti di vita del marito. Ma nonostante i difetti ciò che percepiscono le bambine (in particolare Pam) del loro padre disadattato, è la figura di un Peter Pan avanti con gli anni, che in ogni avversità si sforza a trovare qualsiasi elemento di conforto per le sue piccole. Per rielaborare il passato attraverso un romanzo fantastico come Mary Poppins, occorre far sì che la storia non sia soggetta a interpretazioni differenti che intacchino negativamente la personalità dei personaggi. Perché nonostante un padre disattento e alcolizzato, incapace di mettere la propria vita nella giusta direzione, l’immagine che rimane a Pamela Lyndon Travers è quella di un uomo amorevole.Colin-Ferrell-in-Saving-Mr.-Banks-2013

La contrarietà nel voler trasformare Mary Poppins in un musical dipende dalla spaccatura della Travers matura. Il confine tra concreto e astratto si è sempre più rimarcato negli anni, da provocare una scissione tra la fantasia puerile e il lato più pragmatico della maturità. In qualsiasi ottica si decida di leggere Mary Poppins, ciò che preoccupa Pamela Travers è che la figura del padre non venga intaccata: che Mr Banks mantenga un profilo austero e uno spirito professionale, che spesso lo rende cieco nei confronti dei desideri dei figli. Ma ciò deve servire come percorso interiore per farlo giungere ad un originale finale in cui si diverte a far volare un aquilone insieme ai suoi ragazzi. Mr Banks viene salvato! Esattamente come il ricordo paterno della Travers, che nonostante le sue brutture del carattere, nel cuore della scrittrice inglese continuerà a brillare seppur in profondità. In breve Mary Poppins rappresenta un’estetizzazione del vissuto personale: l’idea originale resta intoccata, viene solo decorata con elementi più coinvolgenti per un pubblico infantile.

Voto: 4 Stelle su 5

Oh no! Che gaffe! Ho sbagliato.. Un film dovevo recensire e invece su un altro sono andato a finire! Fantastici 4.. ehm… vediamo.. No: inutile giustificarsi! Fantastic 4 mi ha fatto sch.. non mi è piaciuto, quindi ho preferito recensirne un altro! Che arduo compito! Ben due mesi! Peccato solo aver accostato un pessimo titolo ad uno ben più gradevole, ma come si leggerà poi, nulla è lasciato al caso.

“Ma Suvvia non esageriamo… ci sarà pur qualcosa di buono..?” Ebbene in effetti l’intento di JackieIlTrovatore è stato proprio questo. Più che incentrarsi su un’inutile conferma delle stroncature il vostro affezionatissimo ha preferito osservare il film cercandone elementi in grado di riscattarlo e dargli valore. Bisogna ammettere che Fant4stic non è proprio un prodotto da scartare.. O meglio non subito.. poiché due pregi li ha e questi potrebbero bastare per non far affondare tutta la nave (Faccio un inchino a me stesso per essere riuscito a scovarli in questa nebbia disorganizzata! Ihohohoho). La scelta di rilanciare i personaggi in una versione più giovane, sulla scia della nuova saga fumettistica Ultimate, può essere un ottimo punto di partenza per esempio, anche se molti fanatici detrattori credono il contrario. Forse c’è troppa abitudine nel considerare Mr Fantastic e co. supereroi di una gran certa esperienza, ma se ci si ferma a ragionare sul caro e vecchio motto e stile di vita Marvel, questa aggiornata contestualizzazione, dà la possibilità al film di ragionare sul tema della responsabilità. Una generazione necessita le competenze di un gruppo di studenti prodigio cui viene concessa la possibilità di un riscatto sociale (Victor von Doom) oppure morale (Reed Richards). Le redini dell’umanità non vengono lasciate a scienziati affermati o esploratori con tanti anni d’esperienza alle spalle, bensì a potenzialità che molto spesso passano inosservate o denigrate da quelle menti anziane che difficilmente vogliono scendere dalla loro torre d’avorio.

Strettamente collegata alla prima, la seconda scelta narrativa interessante riguarda l’acquisizione dei poteri da parte del quartetto. Non più una missione spaziale (come nei film di Tim Story), ma un viaggio interdimensionale volto a scoprire un altrove ignoto. E’ un dato di fatto che negli ultimi anni lo spazio abbia recuperato il suo sublime fascino. Da Gravity ad Interstellar, da Prometheus al da poco uscito Sopravissuto – The Martian (entrambi film di Ridley Scott), e sul versante Disney, I Guardiani della Galassia e la prossima uscita Star Wars: Il Risveglio della Forza.. La magia del cinema digitale e il 3D avvicinano all’umanità pianeti e stelle tanto da renderli palpabili con mano. Ormai si ha l’impressione che il cosmo non sia più tanto ignoto o irraggiungibile. Che è successo a quei poveri astronauti dentro di noi che fin da piccoli incarnavano la curiosità e la tensione verso l’infinito? C’è del profetico in quel volo di Ironman nel primo film The Avengers, quando supera l’atmosfera terrestre per salvare il mondo dall’invasione aliena. Dopo aver sfidato la gravità, il personaggio di Robert Downey Jr non sarà più lo stesso, ormai provato dal cinismo e dalla rassegnazione di aver varcato troppo prematuramente i limiti del sogno.

Lo spazio non può più essere uno stimolo efficace in grado di “spingere” super-eroi (della crescita) verso l’alto e l’inconoscibile. E questo Josh Trank (regista di Chronicles, film che già rappresentava il rapporto tra adolescenza e super poteri) sembra averlo capito! Le stelle sono già state raggiunte, e la Luna percorsa da esploratori grazie a teorie esposte da altri. Il nuovo tipo di ignoto che nessuno all’interno della vicenda conosce, deve essere attraversato dai giovani che ci hanno versato il sudore di speranze che non potranno mai veder realizzate con i propri occhi. Il balzo in un universo parallelo (avvenuto per caso in un momento di sbornia) è il salto oltre il limite, è la meta più auspicabile rispetto un cielo stellato già “esplorato”. Per quanto ricco di buone premesse, il salto di Trank non si compie: Fantastic 4 inciampa prima! Merito forse di un reboot non richiesto, realizzato con l’ansia di dover sfruttare ad ogni costo i diritti in mano alla Fox e competere in qualche modo con il “papà Marvel (Studios)”. Ma possedere il motore giusto non basta e il risultato è un block-buster mal riuscito per quanto riguarda gli effetti digitali (seppur truccato, La Cosa di Micheal Chiklis è decisamente più suggestiva e reale rispetto alla controparte digitale di Jamie Bell). Ma al di là dell’estetica, è la narrazione che non regge e ciò dipende da personaggi statici dipinti immediatamente come ruoli (Destino è già fin dall’inizio Destino!): non si colgono cioè le scelte del loro agire e i traguardi della loro evoluzione, nonché le dinamiche che spingono all’azione (se ne avrà traccia nel finale, per pochi minuti).

Ma il problema risiede nelle scelte! Ed è qui che forse un collegamento a Saving Mr Banks si può fare! Le trasposizioni cinematografiche di opere provenienti da altri media, modificano molti elementi dell’originale per essere più fruibili da un pubblico differente. Nonostante ciò, riescono comunque ad amplificarne il senso primario perfezionandolo. E’ il caso di Mary Poppins, che da film è riuscito ad ampliare molto di più il raggio di portata, rispetto al romanzo della Travers. Tuttavia è stata l’ostinazione della scrittrice a far sì che nonostante le variazioni, il significato finale fosse integro e che l’immagine del Signor Banks non venisse intaccata. E forse dovremmo ringraziare lei e la sua diffidenza nel voler cedere tanto facilmente i diritti a Tom Walt Disney Hanks (notate l’assonanza con Banks!), poiché è dal suo amore esemplare per la propria creatura, che tuttora oggi i bambini vorrebbero una “tata” come Mary Poppins. Forse basta un po’ di amore.. Cosa che Fox e Marvel Studios  sembrano non dimostrare!

I diritti sono un pretesto per ottenere risultati finanziari, sfruttando l’opera senza badare al contenuto e al principio guida che muoveva gli “antichi” albi a fumetti della Marvel. Inserire I Fantastici 4 nel MCU può rappresentare un rientro in patria e da esso ci si può aspettare un capitolo che risollevi le aspettative, ma finché il gioco è quello della competizione, le vittime sono proprio quelle storie, percepite dallo spettatore cinematografico con delusione e insofferenza. Non si tratta di attaccamenti narcisisti (da diventare ossessivi a volte), ma di un semplice sfruttamento disinteressato, attuato solo per sfidare la forza degli Avengers “disneyani”. Ma il gioco del denaro non tiene conto che i supereroi sono troppi e farli riemergere in rilanci vuoti e privi di spessore, non può che far del male alle opere. L’insuccesso di Fantastic 4 dipende proprio da questo: non da un’incompetenza del regista, ma dal disinteresse di una produzione ostinata, che sfrutta al posto di cedere soffocando così i tentativi pur pregevoli che avrebbero potuto trasformare il titolo in qualcosa di più.

Voto: Nuvoloso

Banana!

Minions, Illumination Entertainment, Universal Pictures, di Pierre Coffin e Kyle Balda. Doppiatori originali: Pierre Coffin, Sandra Bullock, Micheal Keaton, Geoffrey Rush, Steve Carell, Jennifer Saunders, Jon Hamm, Allison Janney, Katy Mixon, Steve Coogan, Hiroyuki Sanada, Micheal Beattie, Dave Rosenbaum, Alex Dowding. Animazione, Commedia, 90 min., USA, 2015

LOYtfChe “dilaganza”! Quanta arroganza! I Minions sono ovunque, date freno a questa “mattanza”! Si potrebbe concludere questa recensione così: inventando parole per completare una rima. Del resto c’è chi ha creato una nuova lingua per riuscire ad ottenere consenso e grandi incassi in questa tarda estate. E qui sorge una punta di dispiacere e rammarico nel non poter tornare ai fasti del ludo e dell’infanzia, premiando un film d’animazione che dovrebbe rivolgersi al pubblico più giovane,.. ma non è cosa. Il fatto è che il Trovatore non ritiene Minions un film per bambini. Ma di certo non sembrerebbe neanche un film per i più grandi: Minions è un titolo per i Minions! E’ un dato di fatto che questi omini dalla forma “bananesca” stiano attraverso le nostre reti, tra le varie pause pubblicitarie presenti nei palinsesti: Sky, ovetti Kinder, Chiquita,.. film. Ormai tutti sanno chi sono! Come non vedere dunque Minions senza considerarlo un’opera di merchandise, simile più ad un lungo spot, che ad un film d’animazione.. uno spot per promuovere sé stessi!

Si parla dunque ancora di protagonismo! Non quello che vede le sensazioni, personaggi concreti in un film (come detto nell’articolo precedente “Emozione”). Ma anche questo tipo, come nel precedente caso, gioca brutti scherzi. Forse il problema risiede nella scelta di realizzare un film esclusivamente sui Minions, strani esserini gialli dalla forma anomala vestiti con salopette in jeans, in precedenza aiutanti del super cattivo Gru in Cattivissimo Me. La simpatia suscitata da questi teneri personaggi, sempre esistiti fin dall’età della pietra, può far credere che siano soggetti forti e carichi dunque della forza per trainare avanti un’opera che li vede protagonisti. E in effetti sembrerebbe così, ma di fatto, mentre lo si guarda, si capisce che Minions non è all’altezza! Nei due capitoli di Cattivissimo Me erano considerati i veri protagonisti, poiché la loro goffaggine controbilanciava perfettamente il lato tragicomico del loto padrone, ma il loro carisma era un meccanismo essenziale poiché dosato equamente dal loro essere personaggi secondari. L’ultimo film, uscito nelle sale italiane il 27 agosto sa divertire e dopotutto è in grado di sollevare il pubblico nell’arco dei 90 minuti; l’impressione che comunque si avverte, però, è che il titolo non sia pienamente capace di soddisfare le premesse lasciate dai precedenti film.

Ma ora basta parlare e divertiamoci! Ah.. ah.. ah.. Fine! Sarà io troppo antico a non capire? Lo so, Voi mi direte “Un film per bambini non deve per forza far ridere..” Ok, però neanche Inside Out fa “sbellicare”, eppure è un lavoro decisamente più lodevole. Sta di fatto che tolta una trama debole, poco coinvolgente ed utile solo a ricollegarsi con Cattivissimo Me, cosa ci si dovrebbe aspettare in questo film? Gli sketch di questi birichini non riescono ad intrattenere e neanche la scelta di un’ambientazione anni ’60 serve a sviluppare nuove formule, se non qualche citazione storica poco incisiva. Ordunque in tutta onestà: perché andare al cinema se di Minions ne vedo già troppi in Tv? Fa ridere? La storia sa entusiasmare i bambini (sì forse la mia critica è personale)? Capite dunque, cari Lettori, quale domanda tormenta il vostro Affezionatissimo? Ma la risposta che si è dato è l’unica tra le più sintetiche e potenzialmente sincere. La risposta è: BANANA!

Voto: 2 Stelle su 5

 

Emozione

Inside Out, Pixar Animation Studios, di Pete Docter e Ronnie del Carmen. Doppiatori Originali: Amy Poehler, Phyllis Smith, Lewis Black, Bill Hader, Mindy Kaling, Kaitlyn Dias, Diane Lane, Kyle MacLachlan, Richard Kind, Josh Cooley, John Ratzenberger, Paula Puondstone, Bobby Moynihan, Paula Pell, Lori Alan, Carlos Alazraqui, Peter Sagal, Paris Van Dyke, David Goelz, Frank Oz. Animazione, Commedia, 94 min., USA, 2015

Dopo Toy Story (1995), A Bug’s Life – Megaminimondo (1998), Alla Ricerca di Nemo (2003), WALL•E (2008), Up (2009) e i suoi grandiosi cortometraggi tra cui Luxo Junior (1986) e Il Gioco di Geri (1997), la Pixar torna a regalare emozioni. “Beh si sa..” direte voi, carissimi lettori “Da sempre la Pixar è capace di emozionare grandi e piccini attraverso trame efficaci, ambientazioni originali e personaggi pregni di personalità” Ebbene, Signori, quando si dice che Inside Out offre emozioni, ci si riferisce ad un significato più letterale: sono proprio loro le protagoniste. E’ come se le reazioni suscitate nel pubblico da circa vent’anni, si fossero concretizzate in personaggi di un film che le vede sedere ai posti di comando. E quale metafora più azzeccata di questa! Le avventure di Gioia, Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto si muovono in parallelo con la crescita emotiva di Riley, una spensierata e felice bambina del Minnesota, che vede il proprio mondo precipitare irrimediabilmente, quando il padre decide di trasferirsi con la famiglia a San Francisco. In sintesi, lo svolgimento della storia rappresenta il raggiungimento di un’identità, un riconoscimento del sé: la giovane co-protagonista raggiunge quella fase in cui ci si rende conto che la vita non sempre è in discesa e non si può reagire alle avversità della crescita solamente con la Gioia. A volte occorre un buon pianto per sfogarsi, rialzarsi e andare avanti.

Ooopss, ho svelato qualcosa? Ho fatto dell’irritante e fastidioso spoiler? Queste poche righe hanno davvero racchiuso il tutto? Ma suvvia amici, non vi preoccupate e sappiate che possono essere 10, 100, 1000,.. alla fine Toy Story comunque lo riguardate.. Così come tutti gli altri! Compreso Inside Out! La Pixar ha il talento di coinvolgere e trasformare nuovamente i bambini tutti quei giovani che speravano vivamente che un giorno i propri giocattoli potessero parlare (oppure ne erano spaventati, ma per capire le cause di questo timore, bisogna ritornare al tema del “doppio” contenuto in Golem e a tutti quei bla, bla, bla, bla, bla,..), tramite percorsi che traggono ispirazione dal vissuto quotidiano (dei bambini il più delle volte) in una lettura sofisticata e allo stesso tempo delicata. Si può dire che WALL•E sia una visione “asimoviana” (ihohohohohoh) e distopica di un futuro non troppo improbabile, in grado di far riflettere riguardo il rapporto dell’uomo con la natura, ma la vicenda si svolge con dolcezza grazie alla visione un robot “fanciullo”, spensierato e allegro nella sua malinconica solitudine. Allo stesso modo, l’ambientazione di Inside Out avviene nel cervello di una bambina, un ambiente tuttora inesplorato (quello del cervello umano), che deve reagire agli stimoli esterni di una crescita forzatamente accelerata per via del trasloco e della solitudine creatasi.

Quindi, in breve, si è in una situazione ostile da cui bisogna uscire più forti, più consapevoli.. più maturi. Sulla traccia lasciata dai precedenti film Pixar, il film procede con un’alternanza di ostacoli e risoluzioni in cui il vero nemico non è incarnato in una figura in carne ed ossa, ma è rappresentato dai momenti bui dell’esistenza umana, come l’isolamento e il distacco. Si giunge praticamente ad un’età in cui bisogna far fronte alla malinconia e trovare l’entusiasmo per proseguire, anche se ciò vuol dire rinunciare ai tesori e a compagni di giochi importanti. Sono i compromessi della crescita! Ma anche se la scelta di dare il comando alle emozioni è una maniera velata per raccontare il passaggio all’adolescenza, il “protagonismo” può giocare brutti scherzi. Dare a pesci, formiche, giocattoli e robot lati umani significa raccontare “l’uomo”. Tutte le storie presentano un risvolto emozionante capace di catturare l’attenzione e commuovere, poiché le esperienze vissute e superate da queste figure umanizzate non sono sradicate dal contesto quotidiano, ma lo rispolverano dando nuova energia. Le emozioni umane (o umanizzate) invece sembrano sminuire questa potenzialità che ha contraddistinto i maggiori capolavori Pixar, poiché la bambina sembra essere controllata come un “avatar”: Inside Out sacrifica in superficie il libero arbitrio, mostrando come la crescita sia impersonale e dipendente da forze “controllanti”.

Piloti umanizzati sì, ma pur sempre immagini “digitali” locate nella mente, apparentemente slegate dalle sensazioni materiali e dal contatto diretto con la realtà (se non quello della vista). In poche parole reagire con prontezza agli stimoli esterni è una questione analoga all’esperienza video-ludica: un avatar da comandare con efficienza se non si vuole fare “game-over”. Però l’avatar è umano! Mah che caso strano! Questa riflessione impedisce al Giullare una facile immersione emotiva agli snodi del film: seppur l’idea è brillante, manca paradossalmente quell’emozione che contraddistingueva alcuni dei titoli precedenti. Non sarà mai un Nemo, oppure un WALL•E o un Buzz, avatar ricreati dalla Pixar per poter raccontare una mondo fantastico ed inesplorato.. La riduzione di Riley a corpo “telecomandato” non sembra efficace, se non nel momento in cui si conoscono le emozioni di altri personaggi quali la mamma e il papà: la scena del rimprovero a tavola è di sicuro la più divertente in tutto il film. Peccato venga già presentata quasi interamente nel trailer. Una breve sequenza il cui scopo è far sorridere un po’ anche quei genitori accompagnatori. Quello che poteva essere una struttura brillante, ovvero l’interazione tra emozioni di più “corpi” (piuttosto che concentrarsi su un unico individuo), si ferma ad una vana speranza, causata dal promettente impatto di uno spot. La maturità intesa come un insieme interno di risposte schematiche ed omogenee, nasconde quelle potenzialità che il film poteva sfruttare più consapevolmente, poiché la personalità non parte solamente da noi stessi, ma sboccia anche dal rapporto con gli altri (adulti) e dal mettersi in gioco con essi.images (4)

Ma questa è solo una nota spensierata da parte di uno che dalla Pixar si aspettava di più.. Sicuramente Inside Out è superiore a titoli come Gli Incredibili Cars – Motori Ruggenti: sa intrattenere. Anche se la crescita apparentemente si dimostra come un qualcosa di controllato, è l’imprevisto il pretesto che mette in moto tutte quelle situazioni drastiche e tempra il carattere che accompagnerà l’individuo una volta adulto. E’ l’atto del precipitare che permette di aprire gli occhi e mostrare come la Tristezza non sia un qualcosa di negativo, ma necessita di una sua manifestazione per consentire un maggior equilibrio nel futuro. E questo non tutti lo danno per scontato!

Voto: 3 Stelle su 5

Golem

Ex Machina, DNA Films, Universal Pictures, di Alex Garland, con Oscar Isaac, Alicia Vikander, Domhnall Gleeson, Sonoya Mizuno, Corey Johnson, Chelsea Li, Evie Wray, Claire Selby, Symara A. Templeman, Gana Bayarsaikhan, Tiffany Pisani, Elina Alminas. Fantascienza, Thriller, 108 min., Regno Unito, 2015

Deus Ex Machina = Personaggio della tragedia greca che interpreta una divinità; compare sulla scena grazie alla mechanè, una gru in legno, mossa da un sistema di funi e argani e dà la risoluzione ad una trama ormai irrisolvibile secondo i classici principi di causa ed effetto.

Da questa sintetica definizione, Petrailgiullare intende fare solo ciò che gli pare, tanta dialettica e caotica spiegazione! Avanti nessun timore, ormai conoscerete JackieIlTrovatore! Qui si parlerà per innocenti ipotesi sperando di non provocare indignazione per eventuali “blasfemie”. Si prendano dunque solo le parole “Deus” e “mechanè”. La macchina è un oggetto creato dalle mani dell’uomo: la si può intendere come un “figlio” partorito dall’ingegno umano.. o più semplicemente “figlio dell’uomo”. La macchina della tragedia greca è un mezzo che consente al divino di manifestarsi in terra, mostrarsi concretamente seppur nella fuggevolezza della scena teatrale. Allora si potrebbe azzardare: Dio esiste grazie alla macchina,.. o aspetta, aspetta.. siamo un po’ più provocanti.. “No, no, dobbiamo argomentare!” “E’ solo un’astrazione, lasciami fare!” Dio è macchina poiché è grazie a quest’ultima che si manifesta per risolvere i conflitti e proteggere l’uomo dal gelo del mondo. Se la si leggesse così questa definizione (come quegli abili pensatori che si abbagliano negli svariati riflessi che lascia un semplice specchio, convinti di aver trovato la verità), ecco che i poli s’invertono: si potrebbe ipotizzare che Dio sia stato creato dall’uomo e dunque sia figlio di quest’ultimo. Vabbè.. Dovevamo pur manifestare il nostro talento nel ricavare definizioni da Wikipedia, no? Ai nostri lettori occorre la certezza che anche noi siamo dotati di un po’ di “coltura”.. ihohohohoho?!

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No, il Bardo non ha prelevato nozioni online, solo per mettersi in mostra (non solo per quello). La breve sintesi riportata è centrale ai fini del discorso, altrimenti il film di Alex Garland non si sarebbe chiamato Ex Machina (a meno che anche lui non abbia voluto esser pomposo). Con macchina dopotutto s’intende la tecnica e già a suo tempo il Giullare parlò di questa nuova fede che sembra tutti stiano riponendo nei confronti della scienza. Qui si è in un ambito più specifico che ha a che fare con un tema a tratti molto, ma molto anziano: la robotica. Il robot forse è una figura molto più antica di quanto si pensi, che non appartiene solo alla fantascienza ma pone le sue radici in qualcosa di ben più mitologico e mistico. Nell’introduzione al romanzo Abissi d’Acciaio, il libro del 1954 che apre il Ciclo dei Robot di Isaac Asimov, Giuseppe Lippi fa convergere la figura dell’androide con quella del Golem. Lo stesso Asimov sostenne di essersi ispirato a questa figura appartenente alla mitologia ebraica. Il golem (il cui nome vuol dire “materia grezza”) è un ente privo di coscienza e di un’anima, creato dall’uomo con l’argilla, previo consenso divino. Egli diviene uno schiavo ubbidiente che nutre nei confronti del padrone il “programmato” dovere di proteggerlo. Visto? L’appello al divino sembra avere una sua motivazione se la base di tutto è il golem, nevvero? Esso incarna le stesse caratteristiche del robot di Asimov: nati entrambi dalle “mani” dell’uomo, eseguono ogni suo ordine, sono disposti a sacrificare la sua esistenza pur di proteggerlo, non provano alcun tipo di emozione, se non la logica conseguente un ordine. Si potrebbe dire che il Golem sembri già possedere quello che sarà il principio delle Tre Leggi. Il mio Robot ha un nome: è Golem, Golem, Golem!!!!

Quello che si può intuire nelle varie rielaborazioni del mito del golem è che esso venga percepito come una figura mostruosa. Un’aurea inquietantela-locandina-di-io-robot-8622 trasmette la letteratura che attinge da questa entità sovrannaturale e la stessa sensazione sembra provenire dal rivestimento metallico e freddo dell’androide. Come spiega l’esperto di robotica Anthony Gerrigel (e in seguito riprende Jothan Leebig nel libro successivo Il Sole Nudo, 1957)per aiutare l’agente in borghese Elijah Baley a risolvere il caso sull’omicidio dello Spaziale Roj Nemmenuh Sarton, l’umanità terrestre sembra avvolta da una strana agitazione che porta il nome di sindrome di Frankenstein: la paura infondata che l’opera creata dall’uomo possa ribellarglisi. Il mostro di Mary Shelley cosa può essere se non una ri-modellazione dell’argilla del golem e dunque antenata delle “marionette” positroniche di Asimov? Forse qualcosa di più profondo che una ribellione si nasconde dietro l’aspetto minaccioso dell’automa, una paura più recondita nella psiche umana rispetto al timore rivoluzionario del film di Alex Proyas Io, Robot (2004), che dal padre della fantascienza ha preso solo un titolo e una scontata “interrogazione” delle Tre Leggi. La paura si cela dietro l’apparenza più banale. Per l’umanità terrestre è quella di vedere il proprio lavoro sostituito da una manovalanza più avanzata e precisa, mentre nei Mondi Spaziali (in particolare il Nuovo Mondo di Aurora) è quella di una somiglianza indistinta, in grado di sostituire l’essere umano anche nella pratica “sociale” della sessualità: la fertilità verrebbe ostacolata (dunque anche lo sviluppo del genere umano), originando un mondo stagnante e in lenta estinzione, come teme il dottor Han Fastolfe ne I Robot dell’Alba del  1983.

Il timore dell’essere sostituiti è un pretesto più superficiale che nasconde nevrosi di altro genere. Golem, robot, mostri non sono altro che feticci. Il saggio del 1919 “Il Perturbante” di Sigmund Freud tratta di un timore inconscio che ha a che fare con aspetti familiari ma allo stesso tempo estranei a livello cosciente. L’unheimlich rappresenta il ritorno del rimosso, fatti percepiti come esterni ma in realtà lasciati nell’es, pronti a riemergere inaspettatamente nei sogni o attraverso simboli con cui ci si relaziona nel quotidiano. Risulta così semplice a volte osservare una maschera o una bambola con la stessa percezione che che si prova guardando un film horror sui fantasmi o sugli zombie. L’automa è un feticcio del doppio che appartiene alla sfera della pre-coscienza, una connessione profonda con la fase del narcisismo infantile dell’immagine vista allo specchio, alla quale si offre un’aurea di perfezione ideale, impossibile da raggiungere. fellini casanovay (8)La perfezione di Bellezza Ideale quali sembra suggerire la bambola con cui balla Donald Sutherland ne Il Casanova di Federico Fellini del 1976, può essere già considerata, nel cinema di quel periodo, un’inorganica ed incompiuta antenata del robot. E’ meravigliosa eppure lo spettatore potrebbe reagire con disagio mentre il nobile intellettuale veneziano la seduce con la stessa curiosità perversa del giovane innamorato Nathanael  (L’Uomo della Sabbia, racconto del 1815 di Hoffmann, analizzato da Freud come esempio calzante di unheimlich), che spia la bambola Olympia con il binocolo dalla sua finestra. L’ossessione nei confronti di un corpo senza imperfezioni e difetti, imitazione infedele poiché assume i tratti della Perfezione e dell’Immortalità, si trasforma in orrore: un’immagine distorta del riflesso allo specchio che cela la parte più oscura dell’uomo. Il ritorno del rimosso è anche il ritorno dei morti, la ripetizione parallela dell’esistenza stessa. In La Bambola Assassina del 1988, Chucky è quella maschera orripilante che nega il mascheramento e fa tornare a galla complessi e nevrosi non ancora sconfitti, tra cui la verità ultima: la mortalità del corpo. Ma le maschere sono anche quelle che ammira affascinato e allo stesso tempo intimorito il giovane Caleb Smith, mentre si aggira tra i corridoi del laboratorio, dove come ornamenti, sono appesi vecchi modelli sperimentali per una futura faccia robotica. La mancanza di ogni emozione di queste le fanno apparire come fredde maschere riemerse dall’oscurità e tra esse sembra apparirne una più grottesca se posta in quel contesto, mentre se indossata durante uno spettacolo di commedia dell’arte, parrebbe goffa e satirica. Ma se andiamo per collegamenti, la maschera di Arlecchino raffigura un gatto, e non è vero dunque che questo animale sia considerato una figura demoniaca dal Cristianesimo?

L’antefatto spiegato all’inizio sembra dunque naturale e pronunciare “il nome di Dio invano” sembra tutt’altro che banale, per il lavoro finora fatto. Parlare di uno Zanni, di un Truffaldino, di un Arlecchino,.. il cui nome richiama in maniera onomatopeica Alichino uno dei “comici” demoni di cui racconta Dante nel suo Inferno, dà una connotazione teologica a tutto l’impianto saggistico che si è andato a costruire. Il disagio che è pertinente al Perturbante oltre a richiamare legami psichici con la sfera dell’inconscio, sembra includere nel suo raggio d’azione anche riferimenti religiosi. La grottesca visione di maschere umanoidi immerge lo spettatore in un contesto che ha che fare con il demonio, rappresentato come un suo sosia, un suo pari. Ma è anche vero che la paura non dipenda strettamente dal terrificante. Il principe dell’Inferno, Satana, in realtà è Lucifero un angelo caduto il cui nome significa “portatore di luce”. In alcune interpretazioni egli è il serpente che fa muovere il progresso dell’umanità, che persuade i peccatori originali ad assaporare il gusto del frutto proibito e non sottostare alla volontà di un Dio Onnipotente. Ciò che compiono Adamo ed Eva è un atto di conquista di ciò che apparentemente non è lecito sapere: il frutto dell’Eden risulta dunque il fuoco della conoscenza che Prometeo rubò a Zeus per farne dono ai mortali, il primo passo verso il libero arbitrio e l’indipendenza da un Dio vigile e severo. Una sfida simbolica s’intende! La curiosità spinge Adamo ed Ava ad interrogare la realtà con i suoi elementi, basta solo fare le domande giuste..

In questo caso la maschera, il golem, il robot rappresentano forme concretizzate di un doppio allo specchio. Esse manifestano l’azione dell’uomo che dopo aver assaggiato il frutto continua a mangiarne insaziabilmente, sia in un atto di demonizzazione in quanto ribelle alla volontà di Dio andando oltre i limiti, e sia in un atto di deificazione, poiché attraverso il suo creato e il suo progredire scientifico l’uomo dà la vita e ha un ampio dominio sulla Morte. Fondendo psicanalisi e religione si potrebbe dire che la paura nei confronti del golem moderno, detto appunto robot, è un rimosso arcaico proveniente dal peccato originale: il doppio rappresenta il senso di colpa per aver sfidato l’autorità del Padre, la minaccia eterna della vergogna per aver varcato i limiti dell’ignoto e aver messo in dubbio la sua esistenza. Ma si tratta veramente di un padre?chappie_a Lo scienziato Nathan crea l’intelligenza artificiale Ava e chiede al giovane collaboratore Caleb di testare se la macchina sia dotata di una vera conoscenza e sopratutto di una reale coscienza di sé. Le doti dell’androide femminile non si materializzano in schede di archiviazione o dati trasmissibili come avviene nel film Humandroid di Neill Blomkamp, dove Chappie è un’anima che può spostarsi liberamente da un corpo all’altro, nella coerente tematica del regista sudafricano riguardo l’ibridazione dei corpi e di corpo e mente. In Ex-Machina l’autocoscienza non può essere indipendente dalla consapevolezza del proprio corpo: l’esistenza è causata da ciò che concretamente la permette. In questo modo, l’ancora incompleto studio del cervello non si può determinare attraverso programmi o formule scientifiche, ma attraverso domande che misurano la logicità delle risposte e sperimentano la presenza di libero arbitrio.

La macchina si ribella! Logico.. Il gioco condotto dal suo creatore per farle sviluppare la furbizia si ritorce contro di esso. Ava il cui nome rimanda alla prima donna, compie l’inganno e si ribella al “padre” fuggendo da esso in una cacciata metaforica dall’Eden. La coscienza reca con sé il desiderio di conoscere e cercare di superare i limiti imposti da vetri e pareti. La punizione è l’imbarazzo e il pudore dell’essere nudi, “vestiti” solo con l’onta di aver compiuto un autentico parricidio giudicato dallo sguardo “speculare” di bambole meccaniche (non poi tanto diverse dai perfetti corpi femminili con il volto nascosto da una maschera  di Eyes Wide Shut di Kubrick), da cui Ava preleva pelle, capelli ed indumenti per difendersi dal gelo del mondo. Anche qui sembra tornare il “perturbante”: la zavorra nascosta dentro gli armadi, pronta a riversarsi sulla mente dell’individuo quando essa è meno vigile alle influenze esterne e a volte anche interne. Ava, la macchina si ribella! Il Golem fugge! Il robot diviene libero! Ma cos’è quest’ultimo se non la metafora della nostra condizione? La somiglianza fisica non rappresenta solo un chiaro modello: creare qualcosa dalle mani, dal fango o dall’argilla a immagine e somiglianza di qualcuno o di qualcosa, dar vita a un’imitazione.. Nella Genesi, forse è l’uomo ad essere stato pensato come robot, per poi rivoltarsi contro il Creatore: l’uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio. Oppure siamo stati noi a creare Dio a nostra immagine e somiglianza?

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Deus Ex Machina: Dio dalla Macchina. E se Dio fosse nient’altro che un’invenzione, al quale come al golem, al robot, al doppio, all’immagine riflessa allo specchio abbiamo dato autorità e il compito di proteggerci? Nathan dunque è creatore di sé stesso al quale conferisce potere e superiorità. Un ampliamento potente dell’immagine ideale riflessa allo specchio che si configura come un Super-Io Perfetto, in quanto essenza e manifestazione dell’Immortalità. La Bellezza Ideale è quello relativa all’Eterno, attraverso cui si allontana o sospende la minaccia del deterioramento fisico. Con l’uccisione simbolica di Dio, dunque, non si avrà più il “parricidio” compiuto da Nietzsche, ma di un lento “figlicidio”: un bambino reso inerme ed agonizzante, al quale tutt’ora imponiamo  la nostra autorità e il nostro controllo. In un mondo popolato da maschere, metafore e travestimenti l’unica verità è quella che si preferisce non guardare oppure spiare furtivamente come fa Caleb in un impeto di voyerismo macabro mentre osserva Ava grazie alle camere di sorveglianza. Una volta oltrepassati i limiti (sia quelli dell’Onnipotenza di controllare il mondo grazie alla tecnica che dell’Onniscenza dei motori di ricerca), viene da domandarsi se questi non se li sia imposti l’uomo stesso, affetto da un complesso d’inferiorità nei confronti del proprio golem, la sua mostruosa creatura riflessa nella quale riconosce tutte le aspirazioni ideali, tra i quali la più irraggiungibile rimarrà l’Eternità!

Voto: 4 Stelle su 5

Dettagli

Ant-Man, Marvel Studios, di Peyton Reed, con Paul Rudd, Micheal Douglas, Evangeline Lilly, Corey Stoll, Micheal Peña, Judy Greer, Tip “T.I.” Harris, Bobby Cannavale, David Dastmalchian, Patrick Wilson, Wood Harris, Hayley Atwell, John Slattery, Abby Ryder Fortson, Vanessa Ross, Jordi Mollà, Lyndsi LaRose, Anthony Mackie. Fantascienza, Azione, 117 min., USA, 2015

I dettagli possono significare tuttAnt-Man-Huho! In un film come Ant-Man rappresentano l’aspetto principale che rende apprezzabile questo titolo. Attenzione: i dettagli sono molti! E dunque Amici Miei, quale mente sbadata non ha fatto caso alle “Ova Pasquali”, come che so.. , un titolo di giornale che informa sui fatti avvenuti in Age of Ultron? o un poster pubblicitario che sponsorizza la Pingo Doce Soda, la bibita brasiliana prodotta nella sfortunata fabbrica in cui lavorava Bruce Banner in L’Incredibile Hulk, ecc,.. ecc..? IO! O almeno: il Triskelion? l’ho notato,.. la nuova sede degli Avengers? sì l’ho colta,.. Falcon? era evidente,.. e forse, forse un piccolo rimandino a Spider-Man e Civil WarBeh insomma era palese, per un nerd dale meningi tese.. ma tolto questo risulta alquanto ostico porre attenzione ad ogni singolo dettaglio.. ed alquanto inutile!

E’ anche vero che questa particolare caccia al tesoro è ostacolata da dettagli di altro tipo. Perché si sa: da un film sui supereroi si sa già cosa aspettarsi. Capita però che sia lo stile a rendere particolare un titolo. James Gunn con I Guardiani della Galassia aveva divertito e deliziato con gran sorpresa e lo stesso sembra suggerire Ant-Man di Edgar Wright (prima) e Peyton Reed (dopo). L’ingrediente perfetto è quello di trovare una strategia giusta per non rendere la vicenda un altro capitolo, di un altro personaggio, da inserire in un altro film sul “super-team” più popolare in questi ultimi anni. Analogamente ai Guardini il registro del film appena uscito in sala è quello della comicità e della leggerezza. L’ipotesi di sfruttare Scott Lang, ex galeotto con moglie e figlia a cui pagare gli alimenti, fornisce la chiave giusta per non fare di Ant-Man il grande eroe dai grandi poteri o dalle grandi mutande, ma un comunissimo ladruncolo chiamato a svolgere il suo mestiere, stavolta con un’arma in più, o per meglio dire, in meno,.. “per il bene dell’umanità”! Non vi è traccia di alcuna azione apparentemente eroica, bensì di un furto: il film scorre facilmente grazie ad una narrazione semplice e ritmata (ispirata forse dalla trilogia degli Ocean’s?) in cui un gruppo di persone più o meno preparate, organizza il gran colpo. La già citata arma in “più” è una tuta ultra-tecnologica che permette di rimpicciolire la persona che la indossa e moltiplicargli la forza,.. ma questo è solo un dettaglio di poco conto, niente di che!

Riconoscere ogni dettaglio, però (dal linguaggio differente rispetto agli altri blockbusters realizzati dai Marvel Studios ai più piccoli riferimenti disseminati nel film, che lo posizionano immediatamente al proprio spazio tra il cosmo dell’Universo Cinematografico Marvel), è lo sforzo che richiede Ant-Man per un notevole apprezzamento. La sua essenza di puzzle film lo rende un titolo godibile e leggero, un piccolo gioiellino che non nutre grandi pretese, ma che sa divertire sopratutto grazie alla versatilità del protagonista Paul Rudd e la sua bizzarra gang di ladruncoli. Tuttavia una riflessione va fatta. Giunti ormai a ridosso dell’avvento della fase 3 delle avventure degli Avengers, pare che la “Casa delle Idee” altro non può che giocare sulla sua autoreferenza. L’aspetto “puzzle” più che essere un punto in più sembra sopperire ad una mancanza d’impatto, oscurando dunque un personaggio dai tratti interessanti come è quello di Scott Lang. Il soggetto nasce nell’ombra di un universo già fatto e distinguibile, incapace di spiccare il volo per un’incapacità di rendersi indipendente ed autonomo rispetto a tutto il contesto.

Ma forse questo è un discorso più ampio. Pare infatti che le cose siano cambiate. Il “singolo” è schiacciato dal peso del gruppo. In tutto ciò vengono sacrificati lo studio di un unico personaggio e la sua evoluzione poiché ormai non c’è più l’interesse. Gli attacchi di panico di Tony Stark in Ironman 3 potrebbero essere profetici in tal senso: uno sgretolarsi della personalità dovuta all’esperienza di gruppo, una presa di coscienza della propria inutilità in quanto elemento a sé stante. Eroi come ThorAnt-Man, Spider-Man, Black Panther, Captain America funzioneranno anche in film solamente “loro” e con il minimo apporto all’universo Marvel? Si vedrà dopo Civil War, per il momento,.. sono solo “dettagli”.

Voto: 3 Stelle su 5

 

Distrazione

Wayward Pines, Serie TV, Fox Prodotta da Chad Hodge e M. Night Shyamalan, con Matt Dillon, Carla Cugino, Melissa Leo, Toby Jones, Juliette Lewis, Terrence Howard, Reed Diamond, Tim Griffin, Shannyn Sossamon, Charlie Tahan. Thriller, Fantascienza, 10 puntate da 45 min. (circa), USA, 2015

Wayward-Pines-new-trailer-MAIN“Daan, dan-dan.. Dan-dan, dan-dan, … ta-da da, da-da.. dan-dan..” Ops, pardon! Per chi non lo avesse capito, stavo canticchiando il tema di Twin Peaks? Ve lo ricordate? In Italia era I Segreti di Twin Peaks? David Lynch?? Kyle MacLachlan che interpreta l’agente Dale Cooper? Chi ha ucciso Laura Palmer? “Ottimo caffè e ottima crostata di ciliege?” Niente? Vabbé succede.. Può capitare che ogni tanto un Giullare si distragga e prima d’iniziare una recensione cinematografica si faccia travolgere da un nostalgico motivetto.. Però bisogna tornare seri, altrimenti finiamo in guai neri! “Ihohoho, complimenti paroliere, tu e le tue rime sincere..” “Suvvia ora basta” Perdonate ma in questo periodo la mente fa strani scherzi: sarà il caldo, sarà la pioggia venuta dopo il caldo, sarà il fresco venuto dopo la pioggia, sarà il caldo venuto dopo il fresco,.. e così via. Non si riesce ad essere concentrati e come fessi salmoni si fanno salti troppo alti, rischiando di finire in bocca ad un orso non così simpatico come un membro de The Country Bears, ma sicuramente più sveglio di Winnie the Pooh! Come non detto: prima definii questa recensione “cinematografica”, ma in realtà nelle righe che seguiranno si parlerà di una serie tv. Altro errore mio: vuoi che anche il Bardo sia vittima dei lapsus? Con un vissuto di esperienze così vasto ci può stare! Provengo dal Medioevo: di ricordi repressi il mio inconscio ne sarà pieno..  Oppure: secondo voi si tratta veramente di un errore?

Ma prima: vi ricorda qualcosa quest’immagine?

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Nulla? Vediamo se un confronto vi stimola…

welcome-to-twin-peaks-1200x628-facebookInteressante, no? Sembra calzare a pennello con quanto approfondito nell’articolo precedente, perché questo semplice cartello stradale posto alla destra dello schermo è più di un semplice richiamo. Forse c’è del cinema in tutto questo! O meglio un’intenzione del cinema: ragionare sul passato. Wayward Pines, la serie tv da poco giunta al termine con il decimo episodio, si presenta come una collezione di cliché che richiamano l’attenzione sulla storia televisiva.. e perché no.. anche quella cinematografica: passato e presente. L’occhio iniziale “alla Lost, un agente dei segreti servizi inconsapevolmente capitato in un villaggio di abitanti stravaganti e poco rassicuranti (Twin Peaks), l’impossibilità di poter uscire dalla cittadina di montagna (Under the Dome), aberr… vabbè non diamoci agli spoiler: The Walking Dead forse? E chi da queste premesse non può notare una certa somiglianza con il film di M. Night Shymalan (qui produttore esecutivo), The Village? La macchina da presa del cinema è sempre presente in ogni serie tv, poiché sempre di audiovisivo si parla, però.. Perché dunque scegliere Wayward Pines per parlare di cinema?

La serie è una trasposizione del romanzo di Blake Crouch, a sua volta ispirato a Twin Peaks. La sua natura rapsodica riesce a rappresentare fedelmente il tipo di fruizione letteraria (quasi come Game of Thrones). Sarebbe interessante portare avanti un’analisi incentrata sulla migrazione di contenuti su più media e il confronto tra questi: venire dunque a scoprire come la trasposizione seriale de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin sia più efficace di una qualsiasi possibile opera cinematografica, poiché la sua ricezione è affine a quella letteraria. Questo non è il caso di Wayward Pines, che sì grazie all’uso di cliffhanger riesce a catturare lo spettatore, ma al momento de La Verità (quinto episodio) allenta questa tensione facendo fatica a mantenere alto l’interesse. Da metà stagione Wayward Pines non riesce a colmare le aspettative createsi nei finali incalzanti delle puntate precedenti. Questo è un “vero peccato” perché in dieci episodi ci si può aspettare un gran film “a pezzetti”, in maniera analoga a True Detective (a breve verrà trattato anch’esso da JackieIlTrovatore). Il serial della Fox presenta potenti potenzialità ma le spreca in maniera deludente.

Ha senso parlare di cinema con il serial Wayward Pines? La trama è cinematografica, forse da banalissimo film su cui non si ripone molta fiducia,.. ma nella trasposizione seriale una tal vicenda può assorbire molti più consensi. Il succo è una storia densa, intrigante e matura ma una volta giunta allo svelamento, una volta assunta una sua identità, smette di possedere una sua identità. Ed è qui che entrano in scena la citazione e il richiamo. Denunciata inizialmente di non possedere personalità propria, Wayward Pines presenta un intreccio discreto, ma oltre a quello non può che proseguire con spunti altrui: forse si tratta di una serie ancora non troppo matura che necessita di prendere un po’ e un po’, da Nonna Cinema e Mamma Televisione. Perché ormai è un dato di fatto: il cinema non è più quello di una volta. Spesso e volentieri si considerano ben fatti, blockbuster che non reggono minimamente il confronto con il passato, mentre a casa  ci si intrattiene con prodotti televisivi molto pregiati e per nulla scontati. Si è nell’era in cui il cinema non si fa più al cinema!

Questo blog è nato esclusivamente per il Cinema: dove si è andato a cacciare? In libri pensati più come sceneggiature future che come romanzi in sé? In spettacoli teatrali che se ne servono come mero strumento? Negli omaggi e nei richiami che un certo film sfrutta per celebrare i tempi in cui con poco budget si riusciva a creare il Grande Cinema? O in opere come True Detective che offrono più “arte” di quella che si vede in sala ultimamente? Forse si tratta solo di una questione di potere. Magari il dottor Pilcher di Wayward Pines incarna il tentativo di sopravvivere in un presente dai contorni incerti. E spesso conservazione o preservazione è sinonimo di controllo, dunque potere. Far sopravvivere a tutti costi un’arte, divenuta una lunga ombra del suo stesso passato, significa privare non solo all’arte, bensì anche alla vita, la creatività. Tuttavia uno spiraglio aperto c’è: le camere di sorveglianza della cittadina apparentemente pacifica non riescono ad osservare tutto. E’ il principio d’ordine stesso che mette in moto lo “straordinario”, cioè il nuovo, l’originale. Su questa assunzione crescente di potere la fiction televisiva riesce ad eludere un cinema confuso appropriandosi del suo linguaggio sublime e referenziale, crea prodotti d’impatto grazie alla sperimentazione di nuove formule stilistiche e di contenuto e lo fa rivivere in una nuova veste, quella della discontinuità e della frammentarietà. Non esiste più un cinema unico e sovrano, ma tante realtà che lo rimodellano e lo riassorbono “sparpagliandolo” in vista di un futuro accumulante.

Voto: 3 Stelle su 5

Fossili

Jurassic World, Universal Pictures, di Colin Trevorrow, con B.D. Wong, Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Vincent d’Onofrio, Jake Johnson, Nick Robinson, Ty Simpkins, Irrfan Khan, Omar Sy, Judy Greer, Lauren Lapkus, Brian Tee, Katie McGrath, Andy Buckley e.. I DINOSAURI!!!!! =)=)=)=)=). Fantascienza, Nostalgico, 124 min., USA, 2015

Un’altra strategia attuata dal capitalismo per sopravvivere  è quella di “guardare indietro”! Non si tratta di pura contemplazione, bensì di un vero e proprio prelevamento: si attribuisce valore economico al “vecchio”,  l’oggetto  inutile poiché fuori tempo, che grazie alla trasformazione in capitale diventa attrazione e prodotto degno d’ammirazione. Il cinema agisce come riflesso della società: produzioni hollywoodiane che non solo reintroducono saghe e rispolverano il “successo” di pellicole ormai abbandonate tra gli scaffali della memoria, ma grazie al progresso digitale, riescono a rimettere in commercio film restaurati un tempo dimenticati. Perché cos’è la conservazione se non un tentativo di allontanare la morte? E se la vita dipendesse strettamente dalla società in cui viviamo, poggiata su un sistema economico che prevede  produttività, benessere, evasione, tutti strumenti capaci di sospendere per un po’ il timore della fine di tutto? Valar Morghulis! Non resta che un ritorno all’inizio, poiché la storia rappresenta una materia che illustra un passato distante da ciò che è stato raggiunto finora e dunque assume i tratti del barocco, del bello o del bizzaro… del vistoso, del vendibile,.. il fascino del vintage,.. in poche parole, una sostanza da cui ricavare denaro.

Sulla scia di questa parabola, Steven Spielberg nel 1993 sembrò risaltare l’antico grazie l’ausilio della tecnologia: in Jurassik Park  i dinosauri prendevano vita grazie alla ricombinazione di DNA originale con quello degli anfibi. In quest’ottica l’antico trovava scopo in un nuovo contesto, quello dell’attrazione. In maniera analoga, anche se proporzionalmente inversa, il regista “integra” la visione analogica immettendo nella pellicola contenuti digitali: a rappresentare i mastodontici rettili non sono solo soggetti animatronici come molti pensano;  per  raffigurare l’effetto scia e dunque rendere la corsa del t-rex più verosimile (come se l’operatore stesse veramente riprendendo un dinosauro), Spielberg si servì della computer-generated imagery della Industrial Light & Magic. Nonostante i precedenti tentativi Jurassic Park è considerato il primo grande film ad aver utilizzato la Computer Grafica (CGI). Detto questo, l’incrocio serve ad indicare il nuovo che entra nel vecchio, il digitale che invade la pellicola in un’epoca in cui questa era ancora  l’oggetto simbolo che identificava l’opera cinematografica. In poche parole significato e significante si rincorrono e si completano l’un l’altro come un filamento di DNA: partendo da un romanzo di Micheal Crichton come base, giungono a un discorso più profondo e complesso, qualcosa che ha a che fare con l’attuale.

Magari si tratta di parole sprecate se si considera che Jurassic Park rimane sempre un film d’intrattenimento, ma ciò non impedisce lo studio di un determinato tipo di approfondimento. Il regista che ci ha messo le mani  come su una formina di pongo, ha ricreato e plasmato i dinosauri trasformandoli in realtà. Ma nessuna sorpresa! Se è di Steven Spielberg che si parla, più che col cinema si ha a che fare con un’impresa! L’enorme, il feroce, ma anche l’ignoto e il fantasioso di un’epoca di cui si hanno solo ossa e polvere vengono sapientemente trapiantati nell’era contemporanea per dar corpo ai sogni di una generazione legata al fascino dello sconosciuto. Nutrire la gioia di bambini grazie a un parco d’attrazioni è la mossa di un John Hammond qualunque che grazie alla sua passione, alla sua maestria realizza i desideri di tutti in cambio di pochi spicci. Rispolverare il fascino più antico della fiaba immergendola nel genere fantascientifico è un chiaro esempio di come Spielberg prima di essere autore, sia un astuto imprenditore: un film per bambini come E.T. – L’Extraterrestre non porterà in sala solo i bambini, ma anche i genitori che fino a prova contraria pagano il biglietto anche se accompagnatori.. Anche da questo, storia e metodo convergono in una chiara manifestazione di ciò che la società è e di come il sistema funzioni: il progresso si nutre di finanziamenti per produrre i sogni.

Fin dal principio il cinema è “la Fabbrica dei Sogni”! Dunque perché sorprendersi nel veder riportati in vita i nostri cari “amici” dinosauri. L’effetto “Wow” di un certo cinema alla Georges Méliès ben si adatta a questo secolo bisognoso di nuovi stimoli e sempre alla ricerca di nuovi shock sempre più scioccanti. Ecco che  nasce Jurassic World, quarto capitolo della storica saga, che conscio dei limiti dell’”ovvio” e del “già visto” deve riadattarsi e ridare forma ad una sostanza dispersa e sfatta dalle piaghe del tempo. Il “Dino-Park” che tutti gli appartenenti della generazione anni ’90 sognano (Ebbene sì: il Giullare è tra questi) finalmente apre le porte  per regalare un’ultima volta un’emozione che non si provava più da tempo! Per inaugurarlo, modifica necessaria è cambiargli il nome (o titolo): il Jurassic Park diventa il Jurassic World.. perché il nuovo ha bisogno di una sua autonomia che si discosti solo in superficie dal vecchio.  Ma anche se la Ingen è stata estromessa dagli affari, l’uomo non tarderà a manifestare la sua arroganza creando una nuova attrazione. Perché come accennato, fin da inizio secolo il nostro quotidiano è scandito da shock continui che incalzano il quieto vivere d’istantanei presenti; il passato si deposita troppo in fretta nelle coscienze degli individui ormai assuefatti dalla tempesta d’immagini sempre più prorompenti ed invadenti. I sogni che tanto hanno catturato l’immaginario di una certa generazione, come quella di We’re Back! Quattro Dinosauri a New York (guarda caso prodotto da Spielberg e ma guarda un po’ sempre del ’93, che volpone!) non bastano più. Quei dinosauri che  tanto hanno fatto innamorare noi nerd della precedente generazione sono insufficienti.

Ma ciò è una pecca trascurabile, poiché ciò che dovrebbe tenere incollato lo spettatore modello non sono le creature in sé (non si riesce a capirne il motivo o la magia, ma i dinosauri di Spielberg nonostante i tempi, erano decisamente più.. Reali), bensì il contorno che racchiude questi possenti creature. Non ci si riferisce alle recinzioni del parco, sia ben chiaro, ma ciò che è stato calpestato e viene spontaneamente fatto riemergere dall’oscurità.. E’ un chiaro segnale che il contemporaneo ha bisogno del passato per proseguire e che non occorrono grandi innovazioni ed effetti digitale strabilianti. Così facendo si ottiene semplicemente un sofisticato blockbuster che si conclude con una banale lotta tra Raptors e Tyrannosauro contro Indominus Rex e Mosasaurus. Ma Jurassik World è qualcosa di più in cui l’alleanza non è narrativa, bensì simbolica: il vecchio forse è il vero ed unico protagonista. I Velociraptors (Deinonychus.. perché non si è mai abbastanza nerd, ihohohohoho) e il Tyrannosaurus-Rex rappresentano due fantasmi costretti a lottare contro l’incedere del nuovo. Se i dinosauri di Jurassic Park sono personaggi estranei perché fuori tempo, in Jurassic World queste due specie lo sono di più. Il T-Rex che viene liberato a fine film è il medesimo esemplare che ruggiva vittorioso mentre la scritta “when Dinosaurs ruled the Earth” svolazzava chiudendo il film del 1993.  Ma a 22 anni di distanza, questo fantastico trionfo non riesce più a provocare gli animi, ad acclamare che la natura  vince l’uomo ed il suo tentativo di possederla e domarla. Bisogna punzecchiare lo spettatore attento immergendolo in un altro tipo di passato e farglielo scovare attraverso pochi elementi chiave, quali un caschetto, una jeep distrutta, qualche frase, un arazzo, Benvenuti al Jurassic… Pregio del film non è quello di ammirare i nuovi predatori (principio attuato dal terzo film), ma trasformare il pubblico cinematografico in una squadra di “paleontologi”, desiderosi di scavare nel film del 2015 i fossili di ciò che è rimasto dell’opera grandiosa del primo capitolo del 1993.
1416826165_o-JURASSIC-WORLD-facebookSi è detto che l’ostacolo principale del film sia lo scontento e l’abitudine. Abitudine di una società che ha dimenticato come sorprendersi. Jurassic World cerca di farlo creando un nuovo dinosauro: l’Indominus Rex. Esso rappresenta l’ennesimo errore di un’umanità che pretende di controllare le leggi della natura e infrangerle a suo piacimento. Perché lo sbaglio delle generazione contemporanea sta nel ritenere che il pianeta sia in suo possesso e non viceversa. Noi beatamente illusi che la Terra sia modificabile e che ogni nostra mossa possa migliorarla oppure nella maggior parte dei casi, distruggerla: controllare l’estinzione di alcune specie animali è un tentativo di preservazione artificiale che può dare l’apparenza di campare qualche altro decennio o secolo in più, ma non di scampare dalla fine. Il pianeta Terra può proseguire anche senza di noi, così come ha fatto senza i dinosauri, la più grande specie mai vissuta sulla Terra, spazzata via per una serie di circostanze determinanti. Forse l’uomo dovrebbe riporre attenzione a queste straordinarie creature apparse circa 200 milioni di anni fa, prima di prefiggersi lo scopo di “migliorare” ciò che ha intorno a sé e sentirsi grande.. perché delle più grandi creature vissute più a lungo di noi nel nostro pianeta, ora non restano solo che fossili sottoterra..

Voto: 4 Stelle su 5

Connessioni

Avengers: Age of Ultron, Marvel Studios, di Joss Whedon, con Robert Downey Jr., Chris Evans, Scarlett Johansson, Mark Ruffalo, Jeremy Renner, Chris Hemsworth, Aaron Taylor-Johnson, Elizabeth Olsen, Paul Bettany, James Spader, Don Cheadle, Anthony Mackie, Cobie Smulders, Hayley Atwell, Idris Elba, Stellan Skarsård, Samuel L. Jackson, Andy Serkis, Thomas Kretschmann, Julie Delpy, Linda Cardellini, Claudia Kim. Azione, Fantascienza, 141 min., USA, 2015

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Per scrivere una recensione bisogna sempre tener presente il contesto. In questo caso, si consideri quella rete di connessioni che s’identifica con il Marvel Cinematic Universe, l’Universo Cinematografico Marvel! Nelle analisi precedenti si è parlato di cinema che si appropria di altri media quali il teatro (Birdman) o la letteratura (si tenga come esempio Cenerentola), oppure di altre arti che usufruiscono dell’audiovisivo per ampliare il raggio d’azione della comunicazione (Party Time). Parlando di Avengers: Age of Ultron non ci si limiterà a locare il film tra delle interferenze, bensì a ragionare sulla presa di potere che un media ottiene nei confronti di un altro. Negli ultimi anni la Marvel Comics non è solamente una casa editrice americana nota per aver creato icone celebri come Spider-Man, Hulk, I Fantastici 4, ecc., poiché l’ossessivo bisogno di super-eroi cinematografici, ha fatto sì che questa assumesse un controllo sui suoi prodotti fino poco tempo fa, irrealizzabile. Il “fumetto” non si ferma più alla carta se non per integrarla a un progetto più grande che comprende il cinema, le fiction televisive, le serie animate e brevi filmati. Ogni episodio di Agents of SHIELD è un pezzo importante di un puzzle che si allarga anno dopo anno e favorisce la comprensione di una diegèsi che si protrarrà fino al 2028, stando ai voleri dei “grandi capi”. Questa grande opera di merchandising è attuata dalla partecipazione attiva e dal controllo della Marvel: dunque che i fan non dicano “i film non mi garbano, troppo dal fumetto si allontanano” poiché è il fumetto che ha preso la situazione di petto. Ma se si vuole essere coerenti, qui non si tratterà di un'”arte” in particolare: cross-over, spin off, partecipazioni, congruenze narrative sono parte di un mosaico più grande capace d’investire parecchi milioni ma riguadagnarne altrettanti: se i progetti arrivano fino al 2028, significa che la Marvel ha raggiunto una posizione tanto elevata da permetterle.. beh.. tutto ciò che desidera. In breve: un film sugli Avengers potrà anche far schifo, ma ciò non impedirà a tutto il sistema produttivo di continuare, se i guadagni sono comunque assicurati.

Dunque come prelevare un singolo pezzo come The Avengers: Age of Ultron dall’insieme, senza che il palazzo crolli? Gli studi, i ragionamenti o qualsiasi altro tipo di discorso condurranno alla triste verità che forse non c’è più una distinzione solida tra le arti. La Marvel dimostra che per raccontare una grande storia, evidentemente non basta un unico significante (il film vero e proprio distribuito dalla Disney), ma bisogna distribuirla attraverso più “canali” quali ABC Studios oppure la piattaforma Netflix. Il cinema come è nato forse non esiste più: la sacralità del buio, lo schermo,.. insomma.. l’immersione in una vicenda come se fosse il sogno dello spettatore che si ritrova a fare i conti con i suoi complessi e paure, viene sostituita da una partecipazione continua che si riversa nel quotidiano bombardato dalle immagini in movimento. Un mondo alternativo in cui si arriva addirittura a pensare che forse esista davvero Tony Stark (magari potrebbe far concorrenza alla Apple per i servizi di telefonia mobile ihohohohohohoho!) che con l’armatura di Ironman salva le città da invasioni aliene, oppure che un super soldato quali Captain America, sia esistito concretamente durante la Seconda Guerra Mondiale.

Ma prima che vengAvengers-Age-of-Ultron-Visiona acquistato anche Paperinik dai Marvel Studios, si ragioni sulla singolarità. Visto che si è in tema di agganci, perché non procedere in questa recensione se non con qualche riflessione sulla connessione! Il cattivo in questo episodio è Ultron, un’intelligenza artificiale creata da Tony Stark per difendere la Terra da future minacce: un antagonista promettente ed interessante, ma nonostante la sua capacità di viaggiare attraverso il web e dunque avere il controllo sul mondo, non riesce ad essere abbastanza “invasivo”. Punto di partenza fu quell’astrazione digitale che il Giullare trattò nel suo articolo I Paradossi di.. America, riguardante il film Captain America: The Winter Soldier. Il film, appunto, sembrò incentrarsi sulla mancanza di saldature fisiche nel mondo contemporaneo, sostituite da “universi” digitali che controllano e delimitano. La connessione che segue la Marvel è dunque quella presupposta nel terzo film della Fase 2, dove l’Hydra prende il controllo. L’ansia di proteggersi, di creare una grande armatura per il mondo è il più grosso pericolo per l’umanità, poiché la tecnologia prende il sopravvento e attraverso il viaggio in rete, spinge la coscienza artificiale a impossessarsi dei corpi, come dei burattini legati e manovrati da un’entità nascosta. Dunque qui non si tratta solo di connessioni narrative, bensì di connessioni tematiche, come se la Marvel avesse fatto sue le paure del cinema, causate dalla digitalizzazione crescente in questi ultimi anni. Ed è forse questa tematica che differenzia questo secondo capitollongform-21337-1430598519-15o dal primo: Age of Ultron si presenta come un film maturo capace di cogliere sfumature che prima non potevano essere scorte per un’incompleta evoluzione di personaggi e narrazioni. Nel nuovo Avengers, Joss Whedon diventa più abile nel trattare tutti i protagonisti con omogeneità, lasciando ad ognuno di essi il giusto spazio per un film corale ed equilibrato. Persino Occhio di Falco guadagna il suo spessore trasformandosi da “personaggio utile solo per farsi chiamare Legolas da Ironman” a membro essenziale alla squadra per la sua “apparente” (ammette pure lui che combattere robottoni con arco e frecce risulta alquanto strano) normalità. Ma detto questo, rimane un difetto che può apparire insignificante vista la mole di progetti degli Studios. Tuttavia il Trovatore è desideroso di esprimere la sua opinione, poiché anche il suo giudizio può essere connesso a quanto detto finora sul film… Visto che siamo in tema!

Il discorso pone appunto le basi sulle produzioni previste dalla Marvel per gli anni futuri e da tutto ciò compiuto finora. Pare che in Avengers: Age of Ultron sia insito lo stesso difetto del predecessore: non riesce a colmare le aspettative. Di per sé il prodotto è notevole e di gran lunga più puntuale e preciso del primo, ma manca quel non so che di Epico, quell’emozione che può far uscire un nerd fanatico di fumetti esclamante “WOW!!! CHE FIGATA DI FILM!!!!” oppure un giudizio contrario, negativo e anche colmo d’indignazione! E quando il Bardo afferma che tutto è connesso, si riferisce anche a questa situazione. Ogni singolo film riguardante un Vendicatore, un qualsiasi episodio di Agents of SHIELD Agente Carter, ora anche Daredevil e tra un po’ tanti altri, sono parte di uno schema che fidelizza uno spettatore curioso di sapere cosa mai potrà accadere nel prossimo Avengers, vista la tanta carne messa al fuoco… i vegani invece sono per la Justice League Ihohohohohohoho! Vero è che Thor: The Dark World Ironman 3 non sono stati per niente efficaci, ma l’inaspettato talento dei fratelli Russo dimostrato nel dirigere The Winter Soldier ha fatto presupporre una scatto in avanti nel film corale, il penultimo della Fase 2.

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Ma la spinta non c’è stata! Il film è bello (anche se a tratti noioso come il primo) ma non sorprendente. D’altronde è il rischio che si corre quando si lavora con cast così folti: molti personaggi necessitano di una caratterizzazione equilibrata che non tolga spazio agli altri, senza comunque lacunare in troppa sobrietà piatta (e fin qui ci siamo: bravo Joss). Occorre inoltre mantenersi al livello di tutti gli altri media, riunendo i vari legami in un intreccio efficace in cui nessuna aspettativa rimanga delusa (ahia). In ogni caso la sfida è stata lanciata durante i titoli di coda: il titano Thanos si prepara e annuncia la sua entrata in scena! Le pedine ci sono e altre raggiungeranno la scacchiera entro il 2018, data d’uscita della prima parte di Avengers: Infinity WarSi spera che questa virale connessione di trame e sotto-trame, cinema e serialità, Marvel, Disney e Sony (Spider-Man è tornato alla Marvel),.. conduca ad un risultato eccezionale, finalmente in grado di accontentare i nerd più insoddisfatti, che nonostante la diffidenza, acquistano comunque il biglietto desiderosi di uscire dalla sala… ENTUSIASTI!

Voto: 3 Stelle su 5